Riportiamo di seguito la traduzione di una recensione al volume di Elizabeth Losh “Guerre del sapere. Capire l’università digitale” a cura di Douglas C. MacLeod, ricercatore presso lo State University of New York College of Agriculture and Technology.
La recensione originale si può leggere qui.
È raro leggere un lavoro accademico scritto con tanta passione e con una prospettiva che, alla fine, diventa una discussione sincera e senza mezzi termini. Oggigiorno sembra che molti testi di questo tipo siano scritti da professori, insegnanti, studiosi indipendenti o editorialisti seriamente preoccupati dal deterioramento del sistema educativo americano. Tra le varie ipotesi formulate, questo declino deriva dalla scomparsa degli ideali democratici; dalla standardizzazione delle pratiche federali e statali; da una mentalità aziendale relativamente nuova che si è sistematicamente insinuata nelle nostre istituzioni culturali; o da lezioni pedagogicamente inefficaci in scuole superiori e università obsolete in tutto il Paese.
In the case of Guerre del sapere: Capire l’università digitale, Elizabeth Losh, direttore del corso Cultura, Arte e Tecnologia al Sixth College presso l’Università della California, San Diego, tenta di mettere in evidenza le responsabilità dei “i leader dell’istruzione superiore” convinti che le attuali “iniziative di apprendimento digitale” siano doni del cielo innovativi piuttosto che strascichi della “cultura della stampa” e delle “convenzioni istituzionali esistenti nell’ istruzione superiore”; inoltre li accusa di essere beatamente ignoranti del fatto che queste tecnologie “originali” dovrebbero essere esaminate, in quanto attualmente sono sperimentali e quindi non sono mai state testate. Losh vuole far notare al suo lettore che la percezione della mentalità “vecchia scuola” è stata rapidamente sradicata e sostituita alla cieca da iniziative di “nuova scuola”, a causa del bisogno degli studenti di muoversi sempre in avanti alla velocità della luce in una società globalizzata. Tuttavia, queste iniziative non sono state adeguatamente studiate o non ci si è riflettuto su per vari motivi.
Guerre del sapere è una complessa risposta di 300 pagine ad una domanda fondamentale ed essenziale: chi vince e chi perde quando si parla delle nuove esperienze didattiche digitali? Losh dimostra che non c’è una risposta veramente facile a questa domanda, e fornirne una non renderebbe onore al dibattito. Studenti, docenti, amministratori, membri dei consigli di amministrazione e così via fino ad includere la popolazione mondiale, tutti sarebbero colpiti da questi cambiamenti tecnologici; anche se ciò non distruggerà completamente le modalità tradizionali di istruzione, sicuramente consentirà a tutti coloro che sono coinvolti di mettere in discussione e decostruire l’intero processo (che, dal punto di vista di chi scrive, potrebbe essere necessario a prescindere). La guerra sull’apprendimento, in qualche modo, è già iniziata, e questa guerra inizia con la tecnologia.
Losh sottolinea nel suo primo capitolo, “Quello che imparano al college”, che questa guerra non si combatte tra “generazione digitale” e insegnanti tecnologicamente analfabeti, così come potrebbe sembrare a coloro che, dall’esterno, guardano video su YouTube raffiguranti professori universitari che urlano contro sfortunati studenti innocenti. Invece, questa polarizzazione è perpetuata dalla percezione che esistono “costrutti ideologici” come quello della “generazione digitale” e, a volte, i video di YouTube sono creati ad hoc e non devono essere presi sul serio. Questa percezione distorta e falsificata è “incredibilmente distruttiva” perché enfatizza “il conflitto invece della cooperazione”. Nel suo secondo capitolo, “Guerre del sapere”, Losh estende questo argomento discutendo dell’idea che le università e i college siano diventati imprese capitalistiche, e gli studenti siano solo “consumatori” e “produttori” di “contenuti web-based”, piuttosto che esseri che imparano e hanno voglia di cambiare, guidati dalla volontà di diventare più istruiti. Incasellando gli studenti in questa categoria e giudicandoli istigatori, cospiratori o cittadini-giornalisti pronti a filmare qualsiasi ingiustizia pedagogica, in ultima analisi si arriva inevitabilmente ad uno scontro. Permettendo che ciò continui, gli amministratori sembrano avere “paura” di “perdere il controllo in un’epoca di video e di meme virali”. Riflettono questa paura su persone che cercano di fare il loro meglio per fornire un’istruzione di qualità e su coloro che cercano di andare a scuola durante una strana epoca di evoluzione massiccia nell’universo educativo. Queste modifiche includono diverse variazioni, ad esempio lezioni filmate come “The Last Lecture” di Randy Pausch; reality televisivi e podcast (“Dai reality all’università: scelte del pubblico e rappresentazione pedagogica“); open courseware come i MOOC (“La retorica del movimento Open Courseware“); software antiplagio come Turnitin (“Onora il codice: software antiplagio e l’opportunismo nell’istruzione“); la distribuzione di massa di strumenti elettronici digitali (“I problemi del gioco: l’educazione come prodotto“); la gamification (“Il gioco è tutto: giochi e mondi virtuali nell’istruzione superiore“). In definitiva, in questo tipo di scenario (la digitalizzazione del nostro sistema di istruzione superiore) si perdono le possibilità di esprimere diversi punti di vista e di formulare un parere unanime, insieme con l’opportunità di costruire un discorso civile con i soggetti che contano negli ambienti accademici.
Alla fine del testo, nel capitolo “Capire l’università digitale”, l’autrice suggerisce “sei principi relativamente semplici che possono guidare una pedagogia efficace e il processo decisionale“. Ciò comporta che i docenti e gli studenti usino gli stessi strumenti; riconoscere che tutte le tecnologie, vecchie e nuove, sono importanti; che essere positivi è molto più produttivo e vantaggioso; comprendere che tutti questi problemi sono molto seri; realizzare che la novità è ormai uscita fuori; e infine, soprattutto, che “la regola d’oro dovrebbe prendere le decisioni riguardo la tecnologia didattica”. Se questi principi saranno rispettati nel nuovo panorama accademico digitale (e al di fuori di esso), secondo Losh queste tecnologie potranno aiutare tutti a costruire “un senso del mondo e degli altri” e ad apprezzare “il carattere imperfetto della conoscenza”. Non dovremo più preoccuparci del fatto che la formazione sia vista come un gioco, ciò che la Losh chiama “edutainment“, il che “infantilizza il lavoro intellettuale e banalizza le ambizioni delle famiglie degli studenti, facendo sì che il tutto suoni come se i giovani vengano al campus solo per divertirsi”, o il contrapporre “felice” a “saggio”. Al contrario, amministratori e docenti dovrebbero creare un ambiente di apprendimento positivo e fertile per tutti i sessi, razze, orientamenti sessuali, livelli di istruzione, cultura ecc…; e, a tempo debito, raggiungere gli obiettivi: educare e rinforzare.
Guerre del sapere non è un testo poco impegnativo da leggere. Losh prova ad esporre molte incongruenze associate al processo di apprendimento digitale, e perciò a volte il suo linguaggio è candido, ma brusco. Si pensi in particolare alla sua discussione sull’“ultima lezione” di Randy Pausch dove apprezza la sua abilità di “retore”, ma poi sostiene che “l’oggetto principale della conferenza di Pausch è se stesso” e “nel mondo reale, i docenti che in cattedra indulgono in questo tipo di comportamento egocentrico probabilmente riceverebbero valutazioni molto basse da parte degli studenti, il cui obiettivo è capire la specificità della materia nella cornice più generale di riferimento definita dai fatti oggettivi”. D’accordo, l’ultima lezione di Pausch è diversa da qualsiasi lezione tradizionale che uno studente può ascoltare in classe, ed è più che probabile che tale lezione avrebbe messo il professore nei guai con la direzione; tuttavia, si deve prendere in considerazione che l’intento non era quello di “creare il bisogno di sapere accademico”, ma piuttosto di raccontare la sua storia e il suo viaggio, promuovere l’idea che con duro lavoro e diligenza una persona può realizzare i suoi obiettivi. Piuttosto che essere un attore in una lezione filmata, egli stava cercando di creare un legame, anche forse egoisticamente; ma ciò fa parte della condizione umana. Più giusta è la sua accusa contro Mark Bauerlein e il suo lavoro un po’ superficiale intitolato La generazione più stupida: come l’era digitale instupidisce i giovani americani e mette a rischio il nostro futuro, in cui lei sostiene che lo scrittore “si presenta come un proibizionista e un puritano, desideroso di proibire tutti i giorni alla gente pratiche digitali”. A differenza di Bauerlein, Losh ritiene che “alcune pratiche di Internet possono servire come correzioni per il conformismo e il consumismo degli adolescenti”, e che le piattaforme di social networking come Facebook o Twitter non sono completamente prive di qualsiasi valore educativo e che, se usate correttamente, gli studenti possono infatti impararvi qualcosa.
Guerre del sapere, in definitiva, è un complesso, impegnativo, ricercato e complicato volume di ricerca accademica che (con grande consistenza) riassume, analizza e decostruisce quelli che l’autrice ritiene essere lavori accademici affidabili ma imperfetti scritti da intellettuali interessati allo studio dell’università digitale. Detto ciò, il testo di Losh, anche se un po’ cinico e affettato, può servire per acquisire una prospettiva migliore sulle scienze dell’apprendimento, il cui sviluppo è ancora in fase iniziale.